LA REPUBBLICA FASCISTA DELL'HYMALAIA
LA MANNAIA SUL SILENZIO da LA REPUBBLICA FASCISTA
DELL'HYMALAIA Edizioni Piazza Navona. Roma 1992. Parte III Le solitudini
Cap. II: La mannaia sul silenzio
Leonida Fazi
(pp. 301-304)
.. Non si seppe
mai chi ebbe per primo l'idea espressa da Nardi di «un campo tutto
per noi». Forse nacque in questo e in quello contemporaneamente e
nacque nei tre anzi nei quattro Campi, il 25, il 28, il 27 e anche nel
26, il «cimitero degli elefanti». L'idea era semplice e ovvia:
visto che noi siamo delinquenti, visto che vi avete dato l'ostracismo e
visto che non cederemo mai, mandateci in un campo riservato a noi soltanto,
prima che succeda qualche cosa di brutto. La richiesta fu avanzata in molti
modi, sia ai supervisori, a voce, sia agli inglesi e perfino alla Croce
Rossa Internazionale usando i moduli per la corrispondenza con le famiglie.
Ai colonnelli non parve vero
e si affrettarono a persuadere gli inglesi che con quella richiesta i repubblicani
si erano autodistrutti. Come? Semplicissimo: per liberarsi di quei fastidiosi
ribelli sarebbe stato sufficiente avvertirli che la loro richiesta sarebbe
stata accolta solamente se avessero dichiarato ufficialmente, dinanzi agli
inglesi, di essere fascisti e nemici degli Alleati. E chi mai, argomentarono,
avrebbe avuto il coraggio di rilasciare, oggi, una simile dichiarazione
che li poneva, prigionieri com'erano, alla mercé di Londra e del
regio governo badogliano, senza possibilità di difesa? Il generale
Laird, comandante del Gruppo Campi, si convinse che i supervisori avevano
ragione e dette le sue disposizioni ai "maltesi".
La faccenda fu condotta al
27 e al 25, nonché fra i pochissimi ribelli del «cimitero
degli elefanti», con modalità diverse. Al Campo 25, per esempio,
i prigionieri sfilarono davanti al "maltese" capitano Speranza
(*) che poneva loro al domanda: "Fascista?" Il prigioniero doveva
rispondere sì o no senza aggiungere altra spiegazione.
Ma al Campo 28, Nardinocchi
ebbe il lampo di genio. Fece distribuire una circolare preceduta dal sacramentale
«In nome di S.M. il Re emano la seguente disposizione che ha valore
di legge». Seguiva la disposizione: «Gli ufficiali che desiderano
essere trasferiti in un campo omogeneo sono tenuti a riempire e firmare
le allegate domande redatte in lingua italiana e in lingua inglese per
l'inoltro di entrambe al Comando britannico del Gruppo Campi e la successiva
trasmissione al Governo britannico e al Regio governo italiano. Le domande,
nel testo integrale, dovranno essere presentate al comando italiano del
Campo 28 entro e non oltre trenta giorni a partire dalla data del presente
foglio disposizioni».
Insieme con la circolare furono
distribuiti i fogli di domanda, già dattiloscritti. Erano così
compilati, in lingua italiana e in lingua inglese:
«Il sottoscritto P.O.W.
numero
grado
cognome
nome
Campo
Ala
chiede di essere trasferito in
un campo riservato ad elementi di fede fascista pro Asse. Firmato
».
Rigirandosi fra le dita circolare
e moduli, Chichibio chiese:
- Chi ha da scrivere? Ho finito
l'inchiostro. Ehi, tu, aspetta un momento disse poi al latore dei fogli.
- Ma non c'è fretta!
- Ce n'è, altro se
ce n'è! esclamò Maposi riempiendo e firmando i moduli,
imitato da Rominasi.
- Voi? chiese il latore
a Niccolai e a Giovannoli. Costoro non risposero e continuarono a leggere
e a rileggere circolare e moduli.
Quella sera, a mensa, si fece
un gran parlare e un gran discutere. Corsero parole grosse. Due si accapigliarono.
- Dove ci manderanno? chiese
Chichibio a Maposi.
- Be', c'è già
il terzo recinto del Campo 25. Ci manderanno lì.
- Speriamo che il mese passi
presto. Non vedo l'ora di essere libero.
- Libero?
- Qua dentro siamo prigionieri
due volte. Là, una volta sola.
Ma, due sere dopo, Pizzi e
Perla e gli amici delle Ali superiori si riferivano l'un l'altro la voce
che circolava: in tutti i Campi stava accadendo l'impensabile. A decine,
a centinaia, gli ufficiali già «badogliani» stavano
inoltrando le domande. Al 25 in gran numero avevano risposto "sì"
alla domanda "siete fascista?". Il colonnello Nardinocchi è
disperato, il colonnello Gambuzza non sa più da che parte rivolgersi.
Alle domande perplesse di Chichibio, Perla spiegava:
- Sai che cosa è successo?
Che in tanti si sono ricordati di avere le palle sotto. Si considerano
insultati. In sostanza dicono questo: credevano che io avessi paura, mi
hanno preso per un vigliacco? Fascista-pro Asse? Sissignore! Fascista pro
Asse e mandate i moduli con la mia firma a chi vi pare, a Churchill, a
Badoglio, al Papa, a Dominiddio! Questo dicono. E pare che gli inglesi
ce l'abbiano con i colonnelli che li hanno informati male. Le domande seguono
alle domande, è una frana. Va a finire che in minoranza sono i badogliani.
In un mese di tempo quanti diventeremo?
- E' la riprova che a dividerci
sono stati i colonnelli, Dio li fulmini! brontolò Rominasi.
Ma i colonnelli, ovviamente
d'accordo con gli inglesi, decretarono che il termine per la presentazione
delle domande era anticipato ad una settimana dalla distribuzione dei moduli
e che nessun'altra domanda, dopo tale termine, sarebbe stata presa in considerazione.
Allora i repubblicani della
prima ora fecero un po' di conti e si avvidero, con qualche approssimazione,
che da duecento ch'erano all'inizio si trovavano adesso, grosso modo, in
2000.
- Duemila di fede fascista-pro
Asse! E' un bel botto per Gambuzza e per Nardinocchi. Perché non
fanno un altro telegramma al loro Re?
E Perla, con la pancetta che
sussultava dal gran ridere:
- Ma vi siete accorti quanto
è fesso Nardinocchi? Quella che, secondo lui, è l'Italia,
cioè quella di Vittorio e di Badoglio, è in guerra con la
Germania, si fa per dire. E lui non ti va a parlare di fede pro Asse? Dunque
l'Asse esiste, dunque l'Italia che conta è sempre quella di prima,
è, salvognuno, la Repubblica Sociale Italiana! -
Nonostante questi commenti
e questa ilarità e nonostante la innegabile soddisfazione di non
essere più mosche bianche annaspanti nella tenebra della resa e
dello sfacelo, i primi repubblicani non dettero, in fin dei conti, eccessiva
importanza all'accaduto. Per quanto riguardava ciascuno di loro, infatti,
non era cambiato niente. .
.
***
(pp. 308-312).....Andarono
alla conta, come tutte le mattine e stavano uno accanto all'altro, come
sempre, ma in silenzio a differenza del solito. Il "maltese"
e il quartiermastro Tommy li contavano, tre per tre, mentre passavano nell'antirecinto.
Pareva una mattina come tutte le altre se non fosse stato per lo strano
mutismo che perdurò, una volta che si ritrovarono ammassati dall'altra
parte.
Poi, il maltese fece l'appello
dei repubblicani che uscivano dalle file ad uno ad uno e si portavano là
dove indicava il quartiermastro, in fondo all'antirecinto, presso il reticolato
che dava sulla strada oltre il quale sorgeva il Campo 25. Ogni qualvolta
uno di loro si allontanava dalle file qualcuno salutava. Le voci erano
basse, le frasi monche.
Finalmente, gli altri rientrarono
nel recinto e i repubblicani rimasero soli. Il quartiermastro disse a Chichibio,
con un largo sorriso:
- Io accompagnare voi, io
venire con voi.
- Ribelle anche lui! vociò
Perla. You criminal fascist?
Il quartiermastro rise, dandosi
una manata sulla coscia. Poi disse:
- Io andare per vostri camerati
altri wings. Aspettare qui. -
Attesero una mezz'ora. Poi
vennero giù per il camminamento di ronda i repubblicani delle ali
superiori. Portavano le loro sacche in spalla e qualcuno una sgangherata
valigia, ma si erano sbarbati e vestiti come meglio potevano. Qua e là,
si vedevano i residui delle uniformi. Erano tutti ilari, come ragazzi diretti
ad una gita. Ci furono saluti a gran voce e grida e risate. Bastiani, Burroni
e Sabbatini ebbero una mezza ovazione. Poi il piccolo clamore, a poco a
poco, si placò, si ridusse ad un mormorio.
- I russi hanno lanciato un'altra
offensiva - mormorò Maposi a Chichibio.
- E allora? -
- Pare con successo, dice
lo Statesman. Va tutto a rotoli.
Talli, che con Camori, Mistretta
e Fazi, era accanto a Chichibio, Maposi, Rominasi, Pizzi e Perla, disse:
- I tedeschi, pare, reggono.
Si ritirano ma reggono. E c'è il Giappone. Ma, tanto, chi spera
più? Durerà a lungo, ma a marcia indietro. L'America, la
Russia, l'Inghilterra, tutto il mondo contro.
Perla gridò:
- E allora? Noi sputiamo in
faccia al mondo!
Molti si voltarono a guardarlo
e uno riassunse quanto tutti avevano dipinto in faccia:
- Ecco, bravo. Hai creato
il nostro motto araldico. -
Poi, anche l'ultimo mormorio
si spense. Ora tacevano tutti, in fila indiana lungo il reticolato, guardando
di là.
Quasi di fronte a loro c'era,
di là dalla strada, il cancello del 2/B del Campo 25.
Improvvisamente, quel cancello
si aprì, tre o quattro soldati inglesi apparvero sul limitare e
si fecero da parte. Allora, cominciarono ad uscire i badogliani, in silenzio,
I repubblicani continuarono a tacere. I badogliani, man mano che uscivano
e, in fila qua e là disordinata o compatta, prendevano a scendere
giù per la strada, guardavano verso il reticolato del 28.
Qualche voce si levò,
da una parte e dall'altra e Chichibio temette che parole irose ed insulti
venissero scagliati, ma quelle pochi voci si spensero subito lasciando
tornare, pesante, il silenzio.
Chichibio "vide"
il silenzio come un ammasso informe, incolore, massiccio, che il reticolato,
simile a una mannaia, spezzasse in due.
Muti e immobili i repubblicani,
muti i badogliani dai quali saliva soltanto lo scalpiccio disordinato dei
passi.
Chichibio guardò le
innevate grandi montagne incombenti, i neri pali a forca, la distesa delle
baracche dai lucidi tetti di lamiera, il cielo di smalto azzurro nel quale
volteggiavano, alti e lenti, gli avvoltoi e i falchi e, dentro tutto questo,
quell'Italia che erano loro, repubblicani e badogliani, quell'Italia cupa
spezzata in due tronconi che si allontanavano l'uno dall'altro.
L'Italia muore, pensò
Chichibio. La disfatta, ormai, stava dietro di loro ma questa era la vera
morte e quei due tronconi taciturni e sempre più distanziati le
cantavano, con il loro silenzio, la Messa da requiem.
Lacrime invano represse gli
fecero velo e attraverso questo guardò l'ufficiale che precedeva
i badogliani, isolato. Era avvolto in una mantellina grigioverde e portava
un cappello alpino con la penna bianca, chissà con quanta fatica
salvata sino a quel momento. Per un attimo lo sguardo di Chichibio s'incrociò
con quello del colonnello alpino e Chichibio vide in quel volto triste
sino alla disperazione il proprio volto. Pensò vagamente: «io
bersagliere, lui alpino
anche qua degli alpini, anche là dei bersaglieri»
La sua mente fu invasa tutta da una parola esplosa come un boato: «Perché?»
e voleva significare «perché hanno fatto questo?» Ma
non disse parola.
La fila badogliana continuava
a scendere, scomparve laggiù dove la strada incurvava.
Tommy il quartiermastro, molto
serio, disse:
- Come on aggiungendo poi,
gentilmente: - Volere venire con me.
Rientrarono nel recinto, lo
attraversarono, sostarono dinanzi al cancello di uscita. Niccolai e Giovannoli
erano già lì, con le sacche di Chichibio, di Maposi e di
Rominasi. Altri badogliani si avvicinavano, salutavano questo e quello
ma le parole, le frasi erano incerte, monche, piene dell'imbarazzo di chi
non sa che cosa dire, che cosa augurare.
Finalmente, il cancello si
spalancò, Tommy fece segno ad una squadra di soldati inglesi di
precedere, poi, ai repubblicani: «Come on, please».
Automaticamente, d'istinto,
si erano allineati in fila per tre. Uno disse:
- Non come un branco. E
un altro:
- Chi è il più
alto in grado?
Il tenente colonnello dai
capelli bianchi uscì dalla fila e gridò:
- Signori ufficiali, attenti!
L'attenti delle tre file fu
perfetto. Per qualche secondo, il vecchio ufficiale li guardò, poi
comandò:
- Signori ufficiali! Avanti,
march!
La piccola colonna marciò,
a passo cadenzato, attraversò il cancello, prese a salire la strada,
sempre a passo cadenzato. Il tenente colonnello si volse un attimo e poiché
il passo s'era qua e là scomposto, comandò «Unò,
duè, unò, duè».
Il passo ridivenne compatto.
Tommy sorrise e prese la cadenza. I soldati inglesi lo imitarono.
Dal Campo 28 non veniva una
voce. Molti, di là dai reticolati, guardavano.
Il passo cadenzato risuonava
nel silenzio. Chichibio sorrise a Mariposi e questi gli sorrise. Gli parve
di sentire il piumetto sfiorargli, ondeggiando, la guancia destra. Cantò
dentro di sé «Piume baciatemi, la guancia ardente, che al
bacio un fremito, nel cor si sente, piume riditemi, di gloria i canti e
ripetetemi
». La parola antica "Savoia" fu sostituita d'istinto:
«
Italia avanti
».
Non cantava, naturalmente,
né parlava. Nessuno pronunciava parola. Quel passo cadenzato che
per la prima volta risuonava nella città reticolata, era il loro
canto. A Chichibio parve che non s'udisse altro suono nel mondo intero.
Di là dal cancello
del 2/B del Campo 25 li attendevano in molti. Furono grida, richiami, risate,
stringersi di mani. Chichibio sussultò. Ma quel Colonnello piccoletto,
in giubba grigioverde e pantaloni cachi, non era?
Sì, era lui. Gli corse
incontro:
- Signor Colonnello Pinto!
Quello lo guardò perplesso
e Chichibio:
- Non potete ricordarvi, Ma
io vi ricordo. Comandavate il Campo di Bhopal!
- Vi ricordate ancora di me?
- Non ho mai dimenticato le
vostre parole del primo giorno. Sono contento che siate qua! -
- Anch'io!-
Si strinsero la mano, ridendo.
Poi Chichibio, sempre sorridendo:
- E la dentiera, signor Colonnello?
- Uno schifo come sempre!
-
E si strinsero ancora la mano,
allegrissimi.
Un altro gruppo, proveniente
dal Campo 27, sbucò dalla curva della strada. Anche questo, ordinato,
silenzioso, allineato su tre file, marciava a passo cadenzato.
- Ma si può sapere
chi ha avvertito tutti di marciare al passo? chiese Maposi.
- E a noi chi l'ha detto?
Nessuno. -
Quel passo cadenzato fu il
primo distintivo del Campo 25, la prima ed unica bandiera del Campo 25,
della Repubblica di Yol di Kangra Valley, issata d'istinto,
- Ehi! gridò Nardi
a Chichibio. Che cosa ti avevo detto? Resurrecturis!
E rimase lì a guardarsi
attorno, la faccia tagliata e illuminata da una risata silenziosa, felice
e amara.
LA REPUBBLICA FASCISTA DELL'HYMALAIA Leonoda
Fazi. Edizioni Piazza Navona. Roma 1992 (Indirizzo e telefono: vedi
EDITORI)
LA CITTADELLA ASSEDIATA da LA REPUBBLICA FASCISTA
DELL'HYMALAIA Edizioni Piazza Navona. Roma 1992. Parte III Le solitudini
Cap. III: La cittadella assediata
Leonida Fazi
(pp. 313-317).....Quel 16
ottobre del 1944, cioè dieci mesi dopo l'uscita di Chichibio dal
Campo 28, segnava una data piuttosto importante nella vita dei difensori
di quella sorta di cittadella cinta d'assedio ch'era il Campo 25.
Il giorno prima, per logica
reazione alle ingiurie e alle minacce trasmesse da Radio Delhi e diffuse
dagli altoparlanti, avevano risposto per iscritto alla traccia di vigliaccheria
che delle ingiurie costituiva il succo. Poiché le accuse di ribellione
non avevano fatto breccia, poiché le accuse di tradimento si prestavano,
dopo il voltafaccia badogliano dell'8 settembre 1943, ad essere abbondantemente
ridicolizzate dagli imputati, i colonnelli e la suddetta Radio Delhi avevano
puntato sulla viltà. «Quei criminali» dicevano all'incirca
«hanno paura di combattere ed è questa la ragione vera del
loro rifiuto di cooperare con gli Alleati».
I Venticinquisti finirono
per aver piene le tasche della diceria e decisero di liberarsene una volta
per tutte scegliendo l'unico modo possibile di combattere. L'aver rifiutato
di riconoscere la resa senza condizioni, l'avere accettato di essere definiti
«elementi di fede fascista-pro Asse» e l'aver firmato simile
definizione così che, in futuro, non vi fosse possibilità
di equivoci, evidentemente non era considerato sufficiente per non essere
giudicati privi di coraggio? Occorreva, dunque, ancora un passo, per quanto
pleonastico ormai fosse. Quale? Ebbene, quello di dichiararsi cittadini
della Repubblica Sociale Italiana, dell'unico Stato, cioè, cui potevano
riferirsi ed i cui motivi ideali questo il punto di capitale importanza!
avevano addirittura anticipato quando esso non esisteva ancora. Si sarebbe
in tal modo reso difficile, anzi impossibile a chiunque, definire vigliacca
della gente che, mani e piedi legati, chiusa dentro reticolati vigilati
materialmente dagli inglesi e idealmente dai colonnelli italiani, senza
possibilità alcuna di scampo, si dichiarava solidale con chi, in
Italia, contro inglesi e badogliani combatteva armi alla mano.
Della Repubblica Sociale Italiana,
del resto, ormai sapevano tutto, grazie alle notizie della Radio Fantasma
(che i facitori di miracoli avevano immediatamente rimesso in funzione
portandosi dietro elementi base già procuratisi subito dopo la consegna
agli inglesi delle vecchie radio), grazie alle notizie e agli articoli
dello "Statesman" nonché alle contronotizie del "Corriere",
giornale dei badogliani, e grazie agli altoparlanti diffusori di Radio
Delhi. Sapevano di Graziani, di Borghese, della Decima Mas, dei reggimenti
bersaglieri ricostituiti, dei piloti, dell'afflusso di ragazzi volontari,
delle Ausiliarie, della Divisione alpina Monterosa, della Guardia Nera
Repubblicana; ma sapevano anche dei partigiani, delle liste di proscrizione
diffuse da Radio Bari. Sapevano che l'odio contro di essa era tanto cieco
e stupido da aver cagionato l'assassinio di Giovanni Gentile e da ignorare
quanto ai Venticinquisti appariva estremamente chiaro: che, cioè,
solo la Repubblica Sociale si frapponeva tra gli italiani e la rappresaglia
tedesca che essi avevano previsto e paventato l'8 settembre '43. Sapevano,
di conseguenza, che tale enorme merito non avrebbe procurato ad essa nessuna
gratitudine. Erano convinti che ogni logica ed ogni verità erano
ormai e sarebbero state ancora più in futuro spazzate via dal biblico
spirito di vendetta degli ebrei e dei protestanti e dei sovietici fusi
nel più innaturale degli amalgami tra loro e con i cattolici che
si rifacevano alla Chiesa romana. Sapevano, infine, ciò di cui i
colonnelli avevano dimostrato di essere convinti con il loro comportamento
vessatorio e minaccioso: che quell'amalgama, cioè, avrebbe sepolto
la Repubblica Sociale sotto le macerie dell'Europa insieme con quel Duce
che essi consideravano, istintivamente, l'ultimo Europeo.
Schierarsi, dunque, con la
Repubblica Sociale Italiana, in tali condizioni, significava innalzare
dinanzi alla morte, oltre la morte, una bandiera, per loro quanto mai pura,
ch'era fascista e mussoliniana sol perché innalzata dal Fascismo
e dal suo Duce, gli unici che difendevano, armi in pugno, la dignità
e l'onore dell'Italia e, pertanto, degli ufficiali italiani.
Di conseguenza accordatisi
tutti su un testo uniforme, il 15 ottobre 1944 fecero affluire ai comandi
italiani dei cinque recinti, per il successivo inoltro, la seguente dichiarazione
individuale:
«Al Comitato della Croce
Rossa Internazionale di Ginevra. Delegazione della Croce Rossa Internazionale
Simla e per conoscenza al Comando V Gruppo Campi Prigionieri di Guerra
Italiani e Comando del Campo 25, tramite il Capitano comandante dell'Ala
(1A, 1B, 2A, 2B, 3) 15 ottobre 1944.
Il sottoscritto P.d.G. (numero
di matricola, grado, cognome e nome) Ala (1A, 1B, 2A, 2B, 3) dichiara di
non riconoscere l'armistizio dell'8 settembre 1943 tra gli Alleati e Badoglio,
di considerarsi soldato e cittadino della Repubblica Sociale Italiana tuttora
in guerra con lo stesso nemico come Potenza dell'Asse, e di voler essere
trattato alla stregua dei prigionieri di guerra delle Potenze dell'Asse.
Firma
».
Contemporaneamente, non soltanto
le comunicazioni scritte che venivano affisse alle bacheche dei "Circoli"
ma anche le comunicazioni con il Comando inglese relative alle minime vicende
di quella vita reclusa, portarono non più la semplice dicitura «Campo
25 Prigionieri di Guerra Italiani» bensì la intestazione «Campo
25 P.d.G. Repubblicani Fascisti», insegna, del resto, sin dai primi
giorni apparsa sui fogli interni dei comandi di recinto e circolante nella
consuetudine orale di tutti.
La dichiarazione, infatti,
costituiva soltanto un atto formale, ufficiale. La Repubblica Fascista
dell'Himalaya era già stata in gestazione negli altri campi, era
nata quando i vari gruppi ne erano usciti simili a reparti in cadenzata
marcia verso l'ignoto, per avere nel Campo 25 il proprio battesimo il 9
febbraio 1944 quando avevano pronunciato il loro giuramento, da nessuno
richiesto né imposto.
Divisi per "Sezioni",
colme le baracche furono denominate, e per "Ali" (traduzione
dell'inglese Wings), perfettamente inquadrati, i Venticinquisti si erano
radunati in uno degli antirecinti ed avevano ascoltato il Console Renato
Gambrosier (*), eletto comandante italiano del Campo 25, leggere una formula
inequivocabile. Questa:
«Giuro di servire e
difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle
sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino
al sacrificio supremo. E giuro di combattere per l'indipendenza e l'avvenire
della Patria. Lo giurate voi? ».
Avevano urlato, tutti, «lo
giuro» ed il grido era sembrato espandersi per le valli del Dhola
Dhar le cui montagne bianche di neve scintillavano contro il cielo intensamente
azzurro, appena turbato per pochi secondi da un minuscolo fiocco candido
formatosi sopra il Monte Nodrani e subito dissoltosi.
Ma quella formula, ben presto
conosciuta negli altri campi tramite radio-reticolato e tramite i "maltesi",
si prestava alla derisione di quanti non riflettevano su quel "sacrificio
supremo" reso quanto mai realistico dalle condizioni di totale impotenza
in mano tecnica. Poiché riflettere, sempre difficile, diventa impossibile
quando una qualsiasi passione offuschi il cervello, quel giuramento era
stato, infatti, gabbato per vuota retorica dai colonnelli badogliani in
eterna ricerca di quanto potesse svuotare di significato e ridicolizzare
quei repubblicani che continuavano a rappresentare la loro cattiva coscienza
quando i suddetti colonnelli riuscivano a chinarsi dentro di loro stessi
ed a trovarsi così faccia a faccia, appunto, con la coscienza.
Era necessario, dunque, agire
concretamente, passare dalla parola all'azione. Orbene, una sola azione
poteva essere compiuta: dire al mondo, ciascuno per proprio conto, con
tanto di nome e cognome e ogni altro particolare atto alla identificazione
del dichiarante, di essere un Repubblicano Fascista, un soldato della Repubblica
Sociale Italiana caduto prigioniero, e di voler esser trattato a tale stregua;
e questo, ciascuno per proprio conto, democraticamente, così come
ciascuno per proprio conto, senza proselitismo alcuno, aveva creato sin
dall'8 settembre la Repubblica Fascista dell'Himalaya.
Uno spettatore avrebbe colto
l'apparente contraddizione di quel Campo che, mentre si rifaceva ad una
dittatura, dava uno sconcertante esempio di democrazia, la più ampia
possibile e, insieme, di rigida disciplina.
«Ma chi ha avvertito
di marciare al passo?» aveva chiesto Chichibio a Maposi il giorno
del passaggio e questi aveva risposto "nessuno".
Quel passo cadenzato, infatti,
era stata la prima manifestazione istintiva della reazione allo sfacelo.
Il Campo 25 Repubblicani Fascisti era l'antiresa, l'anti-disordine, l'anti-dissolvimento.
Era, dunque, impensabile che continuasse a somigliare ad un branco di poveri
prigionieri derelitti.
Prigionieri certo, solitari
indubbiamente, abbandonati anche dal Governo Spagnolo che aveva dichiarato
di tutelare soltanto gli interessi del governo regio. Ma non naufraghi
bensì a galla sul naufragio, non moribondi bensì vivi.
.
LA REPUBBLICA FASCISTA DELL'HYMALAIA Leonoda
Fazi. Edizioni Piazza Navona. Roma 1992 (Indirizzo e telefono: vedi
EDITORI)
GLI AGONALI DEI SEMPRE-VIVI da LA REPUBBLICA
FASCISTA DELL'HYMALAIA Edizioni Piazza Navona. Roma 1992. Parte III Le
solitudini Cap. VI: Gli agonali dei sempre-vivi
Leonida Fazi
(pp. 430-432) .
. Durante
le giornate del 26 e del 27 aprile 1946, tutti avevano lavorato a rabberciare
i brandelli delle vecchie uniformi, a ricostruire in qualche modo mostrine
e nastrini delle campagne di guerra ed a fissare su queste pezzetti di
lana brunita, argentea e dorata che fungevano da distintivi delle medaglie.
Chichibio non aveva medaglie,
per quanto ne sapeva, non ne avevano Nardi, Maposi, Talli, Camori, Mistretta,
Fazi, Pizzi e Perla, ma non se ne curavano. Sapevano di essere caduti prigionieri
senza vigliaccheria, di avere fatto il loro dovere e qualcosina di più,
qualcuno molto di più e tanto bastava. Rominasi ne aveva una d'argento,
ma Chichibio dovette insistere perché la smettesse di spolverare
e lustrare il berretto da tenente dell'Aeronautica che, per il lunghissimo
uso, era assai malridotto e fissasse, invece, sul nastrino della campagna
il suo pezzettino di latta.
Il Venticinque aveva un gran
daffare, come un reggimento che, nel chiuso d'una caserma, si prepari una
solenne parata. La notte, poi, tornava a mettersi in fila nel buio per
rivedere in quella sorta di tempio la storia e la propria vita.
All'alba del giorno 28, il
Sacrario fu smantellato e qualche ora più tardi ogni Ala, inquadrata,
confluì al 2/B. Non si vedevano inglesi né indiani in giro,
se non di là dai chiusi cancelli d'uscita e sulle garitte.
Divisi per Ala e per Sezioni,
cioè per compagnie e plotoni, i Venticinquisti s'inquadrarono. Poi
marciarono col consueto passo cadenzato, entrarono nel Campo Sportivo,
si fermarono, fecero fronte alle gradinate. Nel silenzio risuonavano i
secchi comandi di uno che, fuori dalle file, fungeva da comandante. Questi,
un maggiore dai capelli grigi con le fiamme cremisi sul bavero, si portò
di corsa presso le gradinate sulle quali stavano Gambrosier e i tre comandanti
di Ala, e presentò la forza. "Tutti presenti!" disse ed
era vero. C'erano tutti, anche i soldati volontari nel Campo.
Gambrosier salutò,
disse "riposo" e all'ordine del «comandante la truppa»,
lo schieramento passò sul riposo, all'unisono, la gamba destra avanti,
le braccia dietro la schiena. Si udì, ovattato, il lieve tonfo.
L'ordine perfetto contrastava
drammaticamente con l'aspetto. Sahariane, giubbe di diagonale, pantaloni
da ufficiale sotto camicie cachi, uniformi del Campo 25, berretti da ufficiale,
alcuni caschi coloniali. fiamme mostrine e gradi cuciti su quegli abiti
strani, formavano un insieme singolare che avrebbe potuto assimilarli ad
una banda di grotteschi straccioni. Sembravano, invece, ed erano, per le
stellette o i fasci che tutti portavano al bavero, per il nastrino che
tutti avevano sul petto, per le file rigidamente allineate e per il silenzio,
un reggimento formatosi, pensò Chichibio, con i morti risorti dai
campi di battaglia e confluiti lì, ai confini dell'universo, in
solitudine perfetta.
La voce di Gambrosier si levò,
nitida:
- Rendiamo gli onori a tutti
i Caduti su tutti i fronti, che riassumiamo nel Capo cui ci siamo riferiti
come punto fermo nel naufragio di tutti i valori. L'Italia è distrutta
ma la Patria è viva, la Patria è qui. Con le nostre vecchie
insegne onorate, rendiamo onore alla Patria nella bandiera che per la prima
ed ultima volta issiamo, per un minuto, dietro i reticolati. Onori alla
bandiera!
- Campo Venticinque Repubblicani
Fascisti, attenti! gridò il comandante. Si udì un secco,
unico battere di talloni.
- Dietro front!
Il "reggimento"
eseguì. Allora, sul palo di mezzo dei tre piantati per gli Agonali,
salì lentamente una grande bandiera tricolore il cui bianco non
portava stemma.
Chichibio seguì con
lo sguardo quel drappo a poco a poco dispiegato da un vento lieve, tremolante
per le lacrime che gli velavano gli occhi.
- Dietro front!
Il reggimento fantasma tornò
a volgersi verso le gradinate. Chichibio scorse, nella fila davanti a lui,
le tre Medaglie d'Oro, Bastiani, Burroni, Sabbatini, irrigidite, ma il
suo sguardo, scivolando su loro, salì verso le gradinate e di lì
cercò il cielo, sgombro di nubi e lassù, al sommo delle gradinate
vide apparire, in fila per uno, una squadra di soldati inglesi armati.
Il silenzio era tale che pareva poter udire il fruscio delle ali degli
avvoltoi e dei falchi che ruotavano alti.
Scandita, e lenta, la voce
di Gambrosier:
- Benito Mussolini, caduto
per la Patria, soldati, sottufficiali, ufficiali delle Forze Armate di
terra, del cielo, del mare caduti ovunque per la Patria. -
- Presente! urlò
il reggimento. La fila dei soldati inglesi, lassù, presentò
le armi. Tommy, che li comandava, salutò a suo modo, rigidamente.
- Dietro front!
Di nuovo, fronte alla bandiera.
Nell'immobilità e nel silenzio di tutti, la bandiera tornò
a scendere, lentamente, lungo il palo. Prima che arrivasse a terra, il
vento la dispiegò tutta. Come un ultimo sussulto, pensò Chichibio.
Anche agli altri rotolavano giù per il viso, le lacrime che lui
sentiva scendere sul suo? Come quella di mia madre, pensò.
- Rompete le righe!
Il reggimento fantasma si
sgretolò a poco a poco, come a malincuore. Chi si avviava verso
le proprie Ali, chi rimaneva in mezzo al Campo Sportivo, chi sedeva sulle
gradinate. Non si udiva che un mormorare sommesso.
LA REPUBBLICA FASCISTA DELL'HYMALAIA Leonoda
Fazi. Edizioni Piazza Navona. Roma 1992 (Indirizzo e telefono: vedi
EDITORI)
I NAUFRAGHI DI TAMROA da LA REPUBBLICA FASCISTA
DELL'HYMALAIA Edizioni Piazza Navona. Roma 1992. Parte III Le solitudini
Cap. VII: I naufraghi di Tamaroa
Leonida Fazi
(pp. 433-465).....I giorni,
le settimane, i mesi ripresero a trascorrere. In Italia, Umberto saliva
al trono, poi ne scendeva per prendere la via dell'esilio. Chichibio seguiva
distrattamente gli eventi, quasi non lo riguardassero. La sua Patria era
discesa nel sepolcro quella mattina del 28 aprile ed era subito risorta
per accamparsi, per sempre, dentro di lui. Così pensava.
La Repubblica Fascista dell'Himalaya
proseguiva nella sua vita minima con l'usata serenità ma con qualche
rallentamento. Vaghe voci di rimpatrio imminente generarono il rallentamento.
I teatri, per quelle voci, rimasero chiusi. La posta, adesso, giungeva
più di frequente e con date più recenti. I pensieri di tutti
cominciarono a volgersi soltanto verso la casa, verso le madri, i padri,
e chi ne aveva, i figli.
Fu verso la fine di giugno
che Chichibio, alla distribuzione della posta alla quale ormai non accorreva
più, udì da lontano risuonare il proprio nome, per la prima
volta dall'ottobre del 1944, quasi, cioè da due anni. Corse, ansante.
Qualcuno gli porse una cartolina.
Vide, subito e soltanto, la
firma. Era la sorella. Poi, cominciò a leggere dalla prima riga.
C'era scritto: «20 marzo 1946. Speriamo che tu stia bene. Sui giornali
abbiamo letto che i prigionieri torneranno presto, forse tra un mese. Ieri
siamo andati a portare i fiori sulla tomba della mamma. Ti abbraccio forte
forte».
Una botta sulla nuca, la solita
botta.
Chichibio, piantato lì
come un palo, rilesse quelle parole: «Ieri siamo andati a portare
i fiori sulla tomba della mamma». Tornò a rileggerle una,
due, cinque volte. Ma il significato non mutava mai. La mamma era morta.
Quando? La sorella non lo diceva. Certamente gli aveva dato la notizia,
prima, ma lui non l'aveva mai ricevuta. Quando? Certamente in un giorno
qualunque di quei due anni senza posta.
Si guardò attorno.
Altri, qua e là, leggevano le loro lettere ma uno soltanto, leggendo,
sorrideva. Forse agli altri erano arrivate analoghe notizie desolate, ma
ciascuno le teneva per sé. Come confidare un dolore a chi forse
aveva altri dolori simili da sopportare?
Ecco, sua madre era morta
e lui doveva seppellirla dentro di sé, senza onore di quel funerale
che il cordoglio altrui avrebbe rappresentato.
Tornò alla sua baracca,
sedette sul cemento della pensilina, le gambe ciondoloni e la cartolina
fra le mani. Gettò ancora uno sguardo su quelle parole. Il loro
significato era sempre quello, sarebbe stato sempre quello, proprio per
sempre, senza rimedio.
Cominciò a rivedere
la madre degli anni dell'adolescenza e della giovinezza: quella volta che
l'aveva lasciata in ansia durante due notti da lui trascorse con una ragazza
il cui aspetto e nome non ricordava più; quella volta che le aveva
risposto male, e vide il volto di lei stupito e triste per il suo stupido
malgarbo; quella volta che lasciò inappagato il desiderio di lei
di uscire a braccetto del figliolo sottotenente dei bersaglieri, aitante
e occhieggiato dalle donne. Vuoti incolmabili, beni perduti senza ritorno.
E poi il marciapiede della stazione, lui ridente sulla tradotta fiorita
di fez rossi e lei ritta, immobile, vestita di nero, che lo fissava con
quel sorriso e quella lacrima sul volto bianco, di pietra.
Il sogno dell'estate del '42.
Era stato profetico. Il Duce prigioniero, la lunghissima teoria dei soldati
prigionieri che ascendevano il Golgota e lei ch'era anche l'Italia
morente sul letto di ferro smaltato di bianco, sotto la bianca coperta
di piquet. E le suore dalle cuffie inamidate dalle grandi ali bianche,
le suore dell'ospedale del suo paese.
Era morta all'ospedale? in
quell'ospedale? Avrebbe saputo al ritorno. Era morta, non c'era più,
non l'avrebbe più riveduta. Come l'Italia della propria giovinezza,
morta per sempre.
Stupefatto, si avvide di non
piangere. Rimase lì a lungo, in attesa delle lacrime, dei singhiozzi.
Ma i suoi occhi rimanevano aridi. Sentiva sullo stomaco un blocco di cemento.
Nardi, che da qualche minuto
l'osservava dalla soglia della loro camera, si avvicinò e chiese:
- Brutte notizie?
Chichibio annuì col
capo. Nardi ebbe un gesto vago. Chichibio lo guardò e sorrise. Poi
si cacciò in tasca la cartolina e si alzò. Disse:
- E' tardi. Andiamo a mensa?
Andarono, uno accanto all'altro,
senza dirsi niente. Chichibio sentiva la nuca indolenzita, per il solito
colpo ricevuto.
La grande pioggia incominciò,
irregolare.
In Italia avevano messo su
la repubblica, ma non era la loro repubblica. Forse è peggio della
monarchia, pensava Chichibio ma si rispondeva subito che, ormai, era futile
fare differenze fra il male e il peggio.
Il cervello di Chichibio,
del resto, s'era come intorpidito. Quando fra i membri della loro "squadraccia"
si accendevano discussioni sul presente e sull'avvenire dell'Italia inframmezzate
a previsioni sulla futura esistenza di ciascuno, Chichibio ascoltava a
mezzo e quasi non interloquiva.
L'Italia e l'avvenire, che
cosa rappresentavano? una landa grigia di penombra, una non-attesa, un
non-desiderio. Sua madre non c'era più. Suo padre? forse un nemico,
quanto meno un estraneo, forse. Sua sorella? cara, molto cara ma aveva
un marito, dei figli.
Lui non aveva niente, poiché
la madre non c'era più. Al posto di sua madre, l'attesa accorata
di lei di rivederlo troncata dalla morte: un vuoto incolmabile.
La Patria? Ma stava qui, nella
Repubblica Fascista dell'Himalaya dove era vissuto dai primi del 1944,
per quasi tre anni, con il fantasma di essa composto di morti. Nella Penisola?
macerie, odio, ferocia, menzogne, ipocrisie.
Nel campo correvano voci di
rimpatrio prossimo e qualcuno attendeva con ansia che si concretizzassero.
Ma lo lasciavano indifferente. Il ritorno lo disgustava. Meglio se fosse
rimasto qui, nella sua Patria limpida. Tornare, perché?
Le voci di rimpatrio si fecero
improvvisamente più decise, sino all'annuncio certo: il 15 settembre
si parte.
Ma il 18 settembre corse la
voce: si parte il 30. Due o tre giorni più tardi, la nuova certezza:
si parte il 15 ottobre.
- Facciamo le quindicine come
le buonedonne - disse Nardi.
La regolarità degli
annunci e dei rinvii, di quindici in quindici giorni, sembrava denunciare
un piano preciso, un divertimento inglese.
Quando Perla, tutto eccitato,
venne a dirgli che si sarebbe partiti non il 15 ma il 30 ottobre e che
la cosa, questa volta, era certa, Chichibio rispose a mezza voce:
- Non me ne frega niente.
-
- Come?! -
- Sai, sono così vecchio!...
-
Perla lo guardò perplesso
e lo piantò lì.
Seduto per terra, addossato
alla parete della baracca, Chichibio si chiese perché si sentisse
vecchio. Aveva avuto 26 anni quando era precipitato nella prigionia. Quel
giorno la sua giovinezza era morta. Ora aveva quasi 32 anni. In cinque
anni e mezzo aveva perduto tutto: la vittoria, la speranza, la sposa promessa,
la madre. E la virilità, se non quella, forse, dei sensi, certo
quella della psiche. E l'Italia, la sua Italia. Era vecchio. Poteva benissimo
morire, adesso, dentro quei reticolati cui si era affezionato perché
lo avevano protetto dallo sfacelo. Che cosa gli rimaneva, infatti? Eppure
gli rimaneva qualcosa di enorme: la serenità del dire: le mie mani
sono pulite, la mia coscienza è netta, rifarei, punto per punto,
tutto quanto ho fatto. Con tale serenità si poteva morire, quasi
gioiosamente, ma essa era permeata di stanchezza tanto profonda da parere
fisica.
Eppure no, non era veramente
così. In fondo a quella stanchezza c'era un impeto strano, duro
come la virilità, guizzante come la giovinezza: l'ira per aver perduto
tanto, la disperata nostalgia di quel tanto, entrambe fuse in un dolore
acuto, sottile come un ago lunghissimo che, penetrando, toccasse un misterioso
centro dal quale si sprigionava la spasimante frenesia di uscire di lì,
per cui vedeva l'anima cozzare contro i reticolati come un moscone contro
un vetro. Ma i mosconi potevano passare attraverso i reticolati, come gli
uccelli sorvolarli. Lui no, la sua anima no. Uscire attraverso i reticolati,
per andare non in Italia, ma in un'aura irreale dove esistesse tutto quanto
aveva perduto, era una voglia tanto spasmodica quanto inappagabile.
Chichibio si trasse a fatica
da questo rovello che poteva diventare delirio, lo stesso che, per quella
doccia scozzese, per quel divertimento inglese, aveva fatto saltare i nervi
a qualcuno.
Perla aveva avuto ragione
e torto nello stesso tempo perché in ottobre rimpatriarono, a scaglioni,
i badogliani, previa perquisizione accuratissima dei cosiddetti bagagli
e requisizione di quasi tutte le povere cose loro.
- I coo devono aver fatto
il muso lungo. Li hanno trattati peggio dei galeotti, i boia! - strillava
Pizzi.
Loro, invece, sarebbero partiti
il 5 novembre, disse la solita voce che i maltesi propalarono come verità
sacrosante, per sostituirla, il giorno successivo, con il 9 novembre. Ma
questa volta era quasi vero perché lo stesso giorno 9 furono convocati
al Comando britannico per la restituzione di quanto era stato sequestrato
durante le perquisizioni. Ci fu uno che ricevette il proprio orologio d'oro,
portatogli via a Bhopal ma Chichibio non ebbe niente e furono tanti, i
Chichibi, furono quasi tutti. Quell'uno, però, faceva testo sulla
onestà britannica.
- Dovremmo partire da un momento
all'altro - annunciò Maposi.
- Come lo sai? -
- Lo so perché Caraffa
se n'è andato. Ha detto che in Italia non vuole tornare. E' andato
da quella famiglia sua amica di Lahore. Se n'è andato una settimana
fa. -
Il 12 novembre sembrò
che la doccia scozzese fosse finita. Quel giorno, infatti, cominciò,
e durò per tutta la giornata del 13, la consegna dei bagagli. Diversamente
da quanto era accaduto ai badogliani, soltanto un bagaglio su dieci veniva
perquisito e molto sommariamente. Tutti, però, venivano pesati su
una grossa bilancia. Questi bagagli erano pietosi: scatoloni legati con
la corda, sacche per la maggior parte, qualche rara logora valigia.
Il Venticinque divenne elegante
perché era stato deciso di rimpatriare con indosso la divisa del
Campo: bustina, sahariana, pantaloni lunghi di tela. Gambrosier consigliò
di rimettere sul bavero le stellette in luogo dei fascetti «perché
siamo dannati e saremo in balia degli italiani».
Finalmente, il 15 la partenza
divenne realtà. Ma una realtà parziale. Partirono in cinquecento,
dell'1/A e 1/B e, con gran divertimento dei mille rimasti e noia dei partenti,
partirono insieme con le maddalene rimaste nei campi 27 e 28. Poiché
le voci dicevano che si sarebbero ritrovati tutti a Bombay, ci furono pochi
saluti. Invece non si rividero più.
Per i rimasti ricominciò
la doccia scozzese: si parte il 17, fu detto ufficialmente e poi no, tutto
rinviato a chissà quando.
- Marchi non ce l'ha fatta
- riferì Nardi due ore dopo. - Da un pezzo aveva i tarli nel cervello
e un'ora fa ha fatto la frittata. Matto del tutto. -
Il 21, un delegato della Croce
Rossa Internazionale visitò il Campo e annunciò recisamente
e formalmente che il 5 dicembre tutti sarebbero partiti.
- Pare che sia merito suo
- disse Perla ridendo. - Ma vedrai che sbaglia. -
Ora il Campo, così
spopolato, pareva più grande ed era più silenzioso.
Chichibio vagò da un
recinto all'altro. Le baracche vuote gli parvero lapidi di un sacrario
cui le sentinelle indiane, sempre nelle garitte, montassero guardia d'onore.
Dagli orticelli rimasti strappò qua e là foglie d'insalata.
Ne mangiò e ne fece incetta perché la mensa era stata smobilitata
e non si poteva sperare che in qualche scatoletta di carne.
Camminava ed ascoltava il
mormorio e le voci che erano soltanto dentro di lui. Andò nel Campo
Sportivo e vi passeggiò in lungo e in largo, salì le gradinate
e sedette su in cima.
Rivide l'Esercito fantasma
schierato, la Repubblica italiana in parata quel giorno 28 di otto mesi
prima, la bandiera che saliva sul palo sbilenco e vi rimaneva per un minuto
prima di dispiegarsi, scendendo, come per un ultimo sussulto. «Come
un grido di fede e un giuramento», pensò Chichibio e subito
rise per la frase da "padre della patria" che, però, sentiva
maledettamente esatta.
Rifece, quasi in sogno, la
marcia caparbia, con Maposi e con Frediano, rievocò la disperata
volontà di costui e, per singolare coincidenza, lo vide laggiù,
entrare nel Campo Sportivo. Anche Frediano lo scorse e si avvicinò,
si arrampicò sin a lui, gli disse indicando:
- Ecco il nostro capolavoro.
Noi ce ne andiamo ma lui rimane. -
Lui. Quel Campo Sportivo creato
con le mani per dimostrare di non essere vinti, era quasi persona, il nome
aveva diritto alle iniziali maiuscole. Un camerata di guerra.
- Non vedremo più questo
panorama - aggiunse Frediano, dopo qualche secondo, e indicò ancora,
con un gesto largo, la pianura, gli ammassi di alberi a destra e a sinistra,
la distesa delle baracche, i reticolati, il Monte Nodrani e la catena del
Dhala Dar incombente e già candida di neve.
Grossi nuvoloni correvano
per il cielo insieme con le croci bianco-nere degli avvoltoi.
I due guardavano, guardavano.
- Andiamo? - fece Frediano.
Quella notte, desto per ore
sull'angareb, Chichibio ascoltò gli sciacalli che ululavano lontano
e, qualche volta, urlavano fuori la baracca. Fra una sghignazzata e l'altra
di quella miseria a quattro zampe, il pensiero di Chichibio si spingeva
nel baratro livido ch'era l'Italia. La mamma, dov'è sepolta? gli
chiedeva il cervello e lui si turava le orecchie come se il gesto assurdo
gli permettesse di non udire la domanda alla quale non sapeva rispondere.
***
Era l'alba del 29 novembre
1946 quando il secondo ed ultimo scaglione del Campo 25 Repubblicani Fascisti
si radunò nella cosiddetta piazza del 2/B. Ciascuno riprese il proprio
bagaglio.
C'era ancora la bilancia e
Chichibio, aiutato da Frediano, vi si pesò.
- Cinquantaquattro chili -
lesse Frediano.
- Cinquantasei e mezzo - lesse
Chichibio per Frediano.
- Eppure, a guardarci, non
si direbbe che pesiamo tanto poco. -
- Siamo gonfi. Magri ma gonfi.
Dieta inglese. -
Gli altri erano già
inquadrati e, con quelle divise, parevano quasi eleganti, nonostante le
sacche e gli scatoloni. Chichibio, Frediano e Nardi formarono l'ultima
terna della colonna dalla quale salivano rare voci smorzate.
- Chissà dov'è
finito Tommy il quartiermastro... - chiese Chichibio più a se stesso
che agli altri due che non risposero.
- Come on! - disse un ufficiale
inglese ma nessuno si mosse. Dopo una debita, breve pausa, uno degli italiani
ordinò:
- Attenti! -
La colonna eseguì.
- Avanti, march! -
Il passo cadenzato risuonò
per l'ultima volta sulla soglia della Repubblica. La fila ordinata uscì
in silenzio.
Lungo la strada attendevano
autocarri e autobus sgangherati e molte sentinelle indiane. Mentre i prigionieri
salivano a caso, Chichibio si fermò un passo fuori dal cancello
e guardò dentro, oltre la fila dei pali a forca che sorreggevano
i reticolati.
- Sembrano cipressi in un
cimitero - mormorò Frediano. Nardi rispose:
- Non cimitero. Là
dentro siamo stati vivi. -
- Con i nostri morti, vivi
anche loro - replicò Chichibio.
- Tutti mai morti, mai vinti,
vi pare? - fece Nardi.
- Alla faccia dello stramaledetto
mondo schifoso - concluse Frediano.
Chichibio non riuscì
a districare parola dal groviglio che gli legava l'anima. Abbracciò
con lo sguardo le baracche, i reticolati e, laggiù in fondo, quel
pezzetto di spianata del Campo Sportivo che s'intravedeva. Salì
verso la cima del Monte Nodrani, verso le scintillanti pareti del Gairigiunta.
Pensò: il mio onore. Poi, il cervello gli si paralizzò.
Si arrampicò sull'ultimo
autocarro, sedette sul pavimento, le braccia sulle ginocchia rialzate,
la schiena contro il parapetto, la sacca accanto a sé e, dondolando
per le scosse dell'autocarro in movimento, guardò sfilare i reticolati.
Non c'erano più sentinelle sulle garitte.
- E' finita - disse qualcuno
accanto a lui.
- E' finito Yol - ribatté
un altro. - Il resto comincia e continua. -
- Hai ragione - replicò
il primo.
Era così, disse Chichibio
a se stesso, ma non era così. Yol non sarebbe mai finito, i tre
anni di Yol venivano con loro. Guardando per l'ultima volta il Venticinque
gli era balenata quella parola: onore.
Ecco, era come un grumo, una
pietra dura, un diamante, ficcato dentro di lui, non sapeva dove, non irreale
ma concreto. Lo sentiva. Se palpava se stesso, toccava quella durezza scintillante.
Ancora una volta, lo trasportavano, gli dicevano di fare questo e quello,
di stare qui e lì, la lingua straniera lo avvolgeva, le sentinelle
nemiche lo vegliavano e nessuno sapeva che lui, dentro, aveva quella cosa
dura, scintillante, preziosa: la sua vittoria, la sua verità, la
sua sconfinata libertà.
Così pensò Chichibio
mentre cominciava quell'ultimo viaggio verso quella tenebra che, per lui,
era la nuova Italia.
Compì quel viaggio
quasi in uno stato di trance, osservando con stanca curiosità cose
e persone.
In autocarro fino a Nagrota,
sul trenino a scartamento ridotto fino a Patankot, in un enorme recinto
dalle grandi tende e dal grande spiazzo al cui centro alcuni grossi recipienti
colmi di una sbobba grigiastra costituivano la mensa. Vi immerse il suo
"piatto", una tazza di terracotta, assaggiò e sputò
il liquame immangiabile. Andò a frugare nella sacca dove aveva riposto
i suoi tesori: la vecchia sahariana, tre paia di grosse calze bianche,
due slip, una canottiera, una camicia cachi, una grossa scatola di sigarette
Gold Flak e due caschi di banane. Aveva acquistato sigarette e banane col
ricavato della vendita agli indiani delle lenzuola di dotazione. Di banane
continuò a nutrirsi corredando con esse le scatolette di carne parsimoniosamente
distribuite dagli inglesi.
Rimasero a Patankot tre giorni,
sempre dentro quel recinto che un basso muretto, sul quale era piantato
un basso reticolato, divideva dalla strada formicolante di gente. Chichibio
trascorreva le giornate a guardare il traffico di grosse macchine, carrettini,
biciclette, elefanti che trainavano carichi di legna. Le vacche sacre deambulanti
in libertà lo incuriosivano. C'erano delle bancarelle di venditori
di ortaggi e le vacche, sovente, vi attingevano. Una volta un venditore,
certamente non indù, dato un rapido sguardo attorno, sferrò
un calcio potente ad una vacca che si allontanò con un breve muggito
indignato.
Verso sera, passavano cortei
nuziali, con lo sposo a cavallo e bande che diffondevano strani, striduli
suoni e cortei di macchine o di gente appiedata. Nozze di ricchi e nozze
di poveri, ma sempre con ragazze che offrivano ghirlande di fiori. Chichibio
se ne lasciò mettere una al collo.
Il pomeriggio del 3 dicembre
furono distribuite scatolette di carne e di formaggio con l'avvertenza
che dovevano bastare per tre giornate.
Salirono su un lungo treno
e la corsa cominciò. Ma era una corsa a sbalzi, fra soste interminabili
e riprese. La notte fra il 3 e il 4, la giornata del 4, la notte fra il
4 e il 5. Era mattina quando arrivarono a Jhansi e finalmente potettero
scendere sul marciapiede per la distribuzione di un caffè ch'era
amaro e acquoso. Fu consentito di lavarsi alla meglio con l'acqua che sgorgava
da un bocchettone e, prima di risalire, furono contati mentre le sentinelle
tenevano a bada la folla curiosa, multicolore, cicalante.
Alle 10 arrivarono a Bhopal.
Sostarono a lungo e qualcuno
opinò che poteva anche essere tutto un trucco e che magari li rispedivano
nella piana dell'anofele. Ma il treno ripartì.
Il 6 dicembre, il treno sembrò
aver mutato in corsa decisa il suo andare a sbalzi. Arrivarono a Khandwa,
poi a Bhusawal, ma qui il treno sostò più di due ore.
Ora faceva caldo. Chichibio
incontrò Nardi e Frediano che avevano trovato posto all'altra estremità
della vettura. Frediano disse:
- Insomma, pare che stavolta
torniamo a casa. -
- Quale? - chiese Chichibio
e Nardi rise:
- Io non ho casa. Sapete,
mia moglie? Le corna. -
- Nemmeno io - fece Frediano.
- Mio padre. E tu? -
- Beh, mia madre... -
- Non c'è più?
- chiese Nardi. - Non me l'hai mai detto. -
- E perché dovevo dirtelo?
Tanto... -
- Già. Tanto... -
Venne la sera, si fermarono
a Maumad, ricevettero del tè caldo, ripartirono.
Chichibio si destò.
Il terno era fermo in una stazione. "Kurla" disse qualcuno "siamo
a Kurla".
Kurla. Un nome. Buio, voci
ovattate. Una sentinella indiana passava a intervalli regolari davanti
al finestrino. Poi non passò più. Trascorsero due, tre ore,
si fece giorno, il marciapiede della stazione si affollò di indiani,
ragazzi di ogni età, donne, uomini. Chichibio guardava senza pensare.
O meglio, poiché è impossibile arrestare il lavorio del cervello,
contemplava la propria inerzia, la propria indifferenza al rimpatrio. Andare,
fermarsi, quale importanza aveva? C'era qualche impaziente, attorno a lui,
che di continuo chiedeva quando si sarebbero imbarcati, quando sarebbero
arrivati in Italia. Chichibio avrebbe voluto provare la stessa ansia ma
dentro aveva il vuoto.
Alle 6,30 il treno sbuffò
e si mosse. Per tre ore andò avanti tra continue soste. Bombay!
Siamo a Bombay, si andava vociando quando il treno, dopo un lungo sferragliare
sugli incroci dei binari, si arrestò stridendo.
Scesero. Ricevettero una bevanda
tiepida che aveva il nome di tè, s'inquadrarono fra le sentinelle.
Dopo quei tre giorni, avevano un aspetto alquanto malandato ma l'ordine
della colonna era perfetto. Percorsero un breve tratto, al consueto passo
cadenzato e furono, subito, sul molo che una passerella congiungeva al
piroscafo.
Chichibio ne lesse il nome:
Tamaroa. Gli sembrò più piccolo del Westerland con il quale
era arrivato a Bombay cinque anni prima. Affacciati al parapetto, degli
inglesi, uomini e donne, guardavano curiosi quei mille o poco più,
dalla strana divisa e dagli strani bagagli. Qualcuno di loro li indicava,
qualcuno sorrideva.
I mille raddrizzarono le spalle,
si aggiustarono le sahariane e guardarono in faccia quella gente curiosa
che ben presto si dileguò.
Salirono, quasi in silenzio,
lungo la passerella. Soldati inglesi li avviarono verso prua, poi dentro
un boccaporto, li immisero dentro grandi locali privi di oblò.
Chichibio si ritrovò
dentro un camerone stipato di cuccette a castello, si arrampicò
su, fino al quarto ordine di posti e ricominciò ad aspettare. E
cominciò a sudare.
Lì dentro, il caldo
era insopportabile, l'aria fetida sembrava opporre resistenza ad ogni gesto.
Chichibio andò a cercare aria nell'unico luogo dove era consentito
stare oltre che lì, cioè a prua, sporca, ingombra di rifiuti
e di prigionieri. Come tutti, quando si stancava, tornava ad arrampicarsi
sulla cuccetta per abbandonarla subito, ricacciato dal calore enorme. Il
vocio divenne ben presto urlio di protesta. «C'è un guasto
all'impianto» si diceva «c'è il calorifero acceso».
Spuntò un sorridente
e sprezzante medico inglese che scese ad ispezionare i locali. Ma svenne
tra il divertimento generale, e lo portarono fuori a braccia. Verso sera,
il guasto fu riparato, il caldo diminuì ma dentro quei locali si
sudava ugualmente.
Quella notte, Chichibio dormì
a prua, disteso fianco a fianco con altri, ma più che dormire rimase
per ore, supino, a guardare le stelle.
C'erano pochi rubinetti e
poche latrine e dinanzi agli uni e alle altre la fila era costante, ma
non litigiosa. Chichibio pensò al branco con il quale era arrivato
sul Westerland. Ora quello di cui faceva parte non era un branco: era il
Venticinque.
Si ritrovò con Frediano,
Nardi, Rominasi, Talli, Camori, Mistretta e Fazi. Si ritrovò con
Pizzi e Perla. Fecero crocchio, dopo il pasto che, a sera, fu finalmente
distribuito dentro uno stanzone accanto alle cucine dove si sedettero a
turni, attorno a lunghi tavolacci. I turni si avvicendavano rapidamente
perché i pasti, scarsi, erano brevissimi. Tornando a prua, incrociavano
le sentinelle inglesi che rovesciavano in mare i propri avanzi. Chichibio
guardava affamato i grossi pezzi di carne che i soldati gettavano. Tutti
seguivano con gli occhi quei resti succulenti ma quando un soldato inglese
porse il suo vassoio a Nardi, questi lo aiutò, con una manata, a
nutrire i pesci.
Indubbiamente, i Mille del
Tamaroa non erano il branco del Westerland ma gli inglesi non avevano capito
la differenza e chiesero se fra gli italiani c'era chi volesse suonare
e cantare per divertire i militari e le loro famiglie che tornavano in
Inghilterra. Venne un azzimato ufficiale a formulare la richiesta e rimase
attonito dinanzi al rifiuto secco.
- Oh, perché? chiese.
- Siamo signori ufficiali
delle forze armate italiane rispose brusco qualcuno e quello biascicò:
- Oh, sorry
-
- Sorri a sòreta! -
concluse una voce.
Quello non capì e se
ne andò.
La mattina del 9 dicembre
si vide arrivare Caraffa, in manette fra due soldati. Una famiglia musulmana
aveva fatto la spia e alla famiglia indù che lo ospitava non era
stato più possibile nasconderlo. Lo avevano salutato con le lacrime
agli occhi. Caraffa era cupo, affranto, quando salì sul Tamaroa.
Chichibio condivideva la sua
tristezza. Rimpatrio, la stupida parola, pur tanto sognata! Rimpatrio significa
ritorno in Patria. Ma dov'era la Patria? era rimasta nella Repubblica Fasciata
dell'Himalaya, era rimasta con Dio e Dio, si sa, è dovunque nel
mondo.
Naturalmente, Chichibio non
esprimeva in parole questi pensieri vaghi.
Attorno a lui si rideva e
s'imprecava, si mandavano a quel paese inglesi e badogliani, monarchie
e repubbliche e l'avvenire tutto in blocco.
- Io boia! strillò
Pizzi. Ma è poi sicuro che ci portino in Italia, noi ribelli?
- E dove, se no?
- In Russia, magari. Ti ricordi
Nardinocchi, che cosa dicevano? Ti ricordi l'offensiva delle maddalene?
Chissà dove.
- Oppure in Italia disse
Nardi. - Cioè in galera. Non siamo criminali fascisti? Criminali
di guerra. Criminali. Che bella parola. Sul serio, è bella.
All'improvviso, tutti tacquero
attorno a loro. La passerella veniva ritirata. Gente della ciurma correva
qua e là. "Si parte". La voce si diffuse rapidamente.
Quelli che stavano nei dormitoi accorsero.
Insensibilmente, il molo prese
ad allontanarsi. Nel silenzio dei Mille, si udirono distintamente le voci
ridenti di alcune donne inglesi uscite dalle cabine sul corridoio di sinistra.
Chichibio rivide l'allontanarsi
del Victoria dal molo di Napoli. Maposi, trovatosi accanto a lui, gli strinse
un braccio. Chichibio mormorò:
- Quando siamo partiti da
Napoli cantavamo la preghiera del legionario, con Rini, Rustichelli, con
Ferri, con Magistri. Tu eri già partito col Venier.
- Rustichelli è morto,
alla fine del '41. Magistri ferito grave.
- Ricordo ancora quando te
lo scrisse Ferri, nel '42. -
- No, Fu nel '43. Quando mi
scrisse, anche, che del Sesto erano tornati dalla Russia la bandiera e
pochi altri.
- Che Reggimento! Che Compagnia!
Con le palle sotto
-
Qualcuno li guardò
perché il loro mormorio, nel silenzio, era alto come un grido.
Il molo si allontanava sempre
più, il cielo era caliginoso su Bombay, stormi di gabbiani svolazzavano
a poppa e più alti e più lenti ruotavano gli avvoltoi.
Dov'era il suo mondo antico?
Scomparso con la giovinezza, con la sua guerra che inseguiva nel deserto
la vittoria da El Agheila ad El Mechili a Tobruck a Bardia a Ridotta Capuzzo
all'Halfaya. Un volo di piume. Dov'erano le sue piume? che cosa ne avevano
fatto? Lui le aveva portate, nascoste dentro l'anima, al Cairo, nel Pen
15, a Tell el Kabir, a Geneifa, a Suez, sul Westerland, a Bombay, a Bhopal,
a Yol, nell'aspra disperata trionfante Repubblica dell'Himalaya dove le
aveva strappate all'annientamento del Badoglio. Lui le aveva salvate, aveva
urlato in faccia al duplice nemico il salvataggio compiuto ma là
fuori, nell'Italia che non c'era più, chi ne sapeva niente? La sua
fedeltà? Crimine. Il suo onore? Crimine. La sua fierezza? Crimine.
La sua dignità? Crimine. La Compagnia, il Sesto, quei ragazzi stupendi?
tutti criminali.
Sua madre avrebbe compreso.
Ma non c'era più. Morta come la morta Italia. Lui ritornava, dopo
un'eternità, solo, con altre mille solitudini come la sua.
Chichibio cominciò
a mugolare, senza articolare le parole che gli risuonavano dentro il cervello
«O Signore, tu che portasti l'insegna che precede il labaro della
mia legione, tu salva l'Italia nel Duce l'Italia, sempre e nell'ora di
nostra bella morte».
Maposi lo guardò e
lui gli rise in faccia e sputò come schizzi di saliva le parole:
- Non s'è salvato niente.
Il Signore marcia alla testa dei Senza-Dio. Non abbiamo avuto nemmeno la
bella morte.
Non si era avveduto che dietro
di lui, silenzioso come tutti, stava Rominasi che disse:
- Pezzo di fesso della malora!
A noi nessuno ci ha vinto. Neppure Dominiddiio. Noi, i mille del Tamaroa.
I naufraghi del Tamaroa, naufraghi a galla sul naufragio del porco mondo
intero. -
Chichibio gli mise le mani
sulle spalle, se lo guardò un poco e poi, ridendo:
- A galla, Cristo santo! A
galla! Se tu non esistessi, dovrebbero inventarti! Viva La Marmora!
Bombay, adesso, s'era confusa
con l'orizzonte. Il Tamaroa solcava lento, beccheggiando e rollando, le
onde lunghe dell'Oceano Indiano.
***
Il 14 dicembre, il Tamaroa
sostò ad Aden. Una bettolina riforniva la nave.
- Si chiama «Rialto»
- disse Nardi indicandola. Era nostra.
Nel primo pomeriggio di quel
giorno, il Tamaroa sfilò davanti a Perim. Ora stavano tutti a prua,
accalcati sul lato sinistro, in attesa.
- Eccola, l'Italia disse
Angelo Bastiani. Nel volto smagrito, i suoi occhi erano più grandi
e spiritati che mai. Nardi, sottovoce, spiegò a Chichibio.
- E' l'isolotto di Dumeira.
Poco più tardi, Perla:
- Quella costa è la
Dancalia. -
La costa eritrea continuò
a scorrere. Uno disse:
- Domani è domenica
e ci sarà la Messa, sul ponte. Ci vuole un rito per i Caduti.
Bastiani disse:
- Ce ne sono tanti, là.
Tutti tacevano e guardavano.
Chi si muoveva, lo faceva cautamente, come si fa durante i funerali.
La mattina dopo, Nardi raccontò
a Chichibio:
- Sai, i soliti fessi, credo
il cappellano e qualche altro, hanno chiesto agli inglesi di poter celebrare
un rito per i nostri Caduti in Africa Orientale, durante la Messa. Gli
inglesi hanno risposto di no, naturalmente.
Chichibio non andò
alla Messa. Rimase a prua, a pensare a tutti quei Caduti, soldati, operai,
donne, bambini. La notte, sdraiato sul ponte di prua, guardava l'albero
disegnare lenti circoletti attorno alle stelle. Di giorno, rimaneva affacciato
a destra, per non vedere la sua Africa. Guardava giocare i delfini.
La mattina del 17 dicembre
apparve Kashir. Chichibio continuava a starsene affacciato al parapetto.
Se ne distaccava soltanto per i poveri pasti del mezzogiorno e della sera,
magri quasi quanto quelli del Westerland ma con una variante: la mattina,
colazione con un'aringa abbrustolita sulle piastre della cucina. Molti
la rifiutavano. Chichibio la divorava. Poi tornava al parapetto e guardava
trasognato il mare e la costa. Le isole Shadown, la zona di Ras Gherib.
Suez di notte. Il Tamaroa sostò a lungo. Già spuntava il
sole del 18 dicembre quando il Tamaroa imboccò il canale.
C'era gente sulle sponde vicinissime.
Di quando in quando, addossati agli argini, relitti di navi. Laggiù,
il canale sembrò diventare un lago, laggiù oltre la sponda
orientale.
- Il lago di Ismailia annunciò
Nardi e poi: - Guarda, là al centro, che cosa sono?
Attorno a loro già
si rispondeva:
- Due navi da guerra. Due
corazzate. La Littorio
No. Sì, e quella è la Vittorio Veneto.
No, non può essere. Può essere. E' certo.
Le due navi da battaglia erano
dipinte di bianco. Immobili. Mute.
I Mille si accalcavano a prua
e lungo il corridoio sul quale davano le cabine delle famiglie inglesi.
Il vocio si attenuò, si spense. Tutte le teste, man mano che il
Tamaroa procedeva, si giravano lentamente verso le due navi da battaglia
che rimpicciolirono, scomparvero.
Nardi disse:
- Bianche come la loro bandiera
a Malta. -
Rominasi mormorò, pianamente:
- Come la nostra coscienza.
Il pomeriggio, il Tamaroa
attraccò a Porto Said. Gente di ogni specie formicolava nel porto,
guardava verso il Tamaroa e gridava offrendo merce di ogni sorta. Durante
la notte, i soldati inglesi della scorta occuparono il corridoio allontanandone
i prigionieri.
Erano le 7,30 del 19 dicembre
quando il Tamaroa uscì da Porto Said, erano le 8 quando cominciò
a solcare le acque del Mediterraneo, agitate per onde brevi orlate di spuma.
Un vento teso, freddo, investì la nave.
Chichibio tornò giù,
si arrampicò sulla sua cuccetta, tolse dalla sacca il vecchio pastrano
grigioverde ma rinunciò a tornare su. Rimase nella cuccetta che
dondolava con il movimento della nave. Ascoltava il tonfo delle macchine
e seguiva i brandelli di pensiero che ondeggiavano come lievi relitti trascinati
dal vento. La madre, Rini, Pina, Ciro Gallo, Viale e Rossi, i morti di
Geneifa, quello lasciato, una eternità prima, a Porto Sudan, la
donna e il bambino di Suez, suo padre col sottogola che diceva «signorsì»
a Sua Maestà, le disposizioni di Nardinocchi che avevano valore
di legge, il guardiamarina folle del Cairo, il capitano Compagnoni in fuga,
«il sottoscritto chiede di essere trasferito in un campo riservato
ad elementi di fede fascista-pro Asse», «il sottoscritto dichiara
di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e di voler essere trattato
alla stregua dei prigionieri dell'Asse», la pietraia del Monte Nodrani
trasformata in campo sportivo, la maratona, gli agonali, il sacrario, l'esercito
fantasma
Brandelli di pensiero, brandelli d'immagini. Urlavano dentro,
laceravano, piagavano. Il bersagliere di Maposi che salutava a braccio
teso, a Geneifa, il suo non essersi mai umiliato dinanzi agli inglesi,
il suo non aver mai piatito, le lettere da casa che per due anni non arrivavano,
il sogno profetico, il cinema e le orrende immagini del linciaggio di Caretta,
le orrende immagini del popolino festante ed elemosinante, le orrende immagini
di Piazzale Loreto. Basta, Dio mio, basta. Dio mio! Il cappellano sull'altare
improvvisato che ribaltava la preghiera di una domenica prima. Era quello,
Dio? Ma quello era soltanto un prete sacrilego. E' vero, questo? Ma, poi,
che cosa importava?
Quando si svegliava, Chichibio
benediceva e rimpiangeva il sonno. Lasciava la cuccetta per mandar giù
quei pasti da fame. Guardava il Mediterraneo corrucciato, ventoso, gelido.
Così, quel rimpatrio tanto sognato: corrucciato, gelido. E solitario:
erano in mille, sì, ma mille solitudini. Fra le sentinelle, però,
da «ostili». Questa era l'unica gioia di quel rimpatrio. Era
come se quelle sentinelle facessero, senza saperlo, il presentat'arm a
quei soldati.
- Si vede Creta! gridò
qualcuno. Che cosa gli importava di Creta?
Così tutto il 19, il
20, il 21 dicembre finché la sera di quest'ultimo giorno udì
gridare che si scorgeva il faro di Capo Spartivento.
Allora, salì sul ponte
di prua per vedere quel punto luminoso ch'era l'Italia. Una luce nel buio,
pensò e si corresse sogghignando: un buio e basta, con un faro qualunque.
Fu alle 9 di domenica 22 dicembre
1946 che Chichibio rivide, per la prima volta, veramente l'Italia: Capri,
la costiera salernitana.
C'era chi, nelle ultime ore
della notte, s'era fatto la barba, si era acconciato l'uniforme del Venticinque.
Lui si limitò ad acconciare l'uniforme. Non aveva più lamette
né sapone. Tanto, chi avrebbe trovato allo sbarco? Pina era scomparsa
chissà dove da anni. La mamma non c'era più. Suo padre? sua
sorella? Non credeva di trovarli a Napoli, in attesa di lui. Abitavano
lontano e si diceva che viaggiare in Italia fosse difficile.
Però, salì ugualmente
sul ponte di prua con la sua sacca, si cacciò nel suo posto preferito,
sul corridoio di destra. Il cuore gli martellava in gola. Fra poco non
sarebbe più stato il prigioniero di guerra 118110, non sarebbe più
stato il prigioniero di guerra repubblicano fascista. Sarebbe stato, che
cosa? La sua laurea in legge era un incidente lontanissimo, dimenticato.
Come si sarebbe guadagnato da vivere? Suo padre era povero, un ufficiale
povero, ormai forse non più in servizio; sua madre che cosa poteva
avergli lasciato? Quel pezzetto di terra, quei due piccoli poderi a vigna
da dividere con la sorella? e con il padre?
Ora, Napoli si dispiegava
là davanti, con il suo Vesuvio senza pennacchio. Il Tamaroa procedeva
lentissimo, quasi in abbrivio.
Laggiù, si accostava
una barca spinta a remi da due uomini con un ragazzetto inginocchiato a
prua. Il ragazzo gesticolava verso la nave. Quando la barca fu più
vicina, udì la voce del ragazzo gridare:
- Jettate! signurì,
jettate!
Tendeva la mano e continuava
ad elemosinare così, con un lagno lungo.
- Eccola, l'Italia fece
Rominasi.
Ora, altre barche s'accostavano
uscendo dal porto. Lungo un molo stavano allineate tre cacciatorpediniere,
deserte, sporche, nerastre, senza bandiera.
Tutti i Mille erano ammassati
a prua, lungo il parapetto di destra, silenziosi. Un rimorchiatore uscì
dal porto, si avventò sul grappolo di barche e le innaffiò
con l'idrante. Anche dal Tamaroa due idranti entrarono in funzione. Militari
e famiglie inglesi assistevano allo spettacolo, gesticolavano e ridevano.
Il rimorchiatore investì una barca che si capovolse. Uno soltanto
dei suoi tre occupanti risalì a galla. Gli inglesi, militari, uomini
e donne, ridevano sempre.
I Mille si voltarono come
ad un comando, cominciarono a salire verso il ponte superiore e quelli
di testa urlavano. Gli inglesi scomparvero.
Il Tamaroa avanzava sempre,
ancor più lentamente e i Mille erano di nuovo tutti al parapetto
di destra a guardare le barche che, ora lontane e rimpicciolite, si disperdevano
e parevano relitti trascinati dalla corrente.
Improvvisamente, qualcuno
disse:
- Là, la gente! -
I Mille si voltarono, ancora
come ad un comando, e si riversarono, tutti, al parapetto di sinistra.
Chichibio vide sul molo un
grumo nero di persone. Erano uomini e donne ricoperti di cappotti che gli
parvero tutti di colore nero. Da una eternità lui non vedeva gente
vestita «in borghese», gente con il cappotto e, come qualcuno
là, con il cappello.
Il Tamaroa si accostava sempre
più e dal molo, adesso, arrivavano le voci di quelle persone che
gesticolavano. Chiamavano, gridando.
Un prigioniero urtò
Chichibio, si avventò al parapetto, si sporse e tendeva tutte e
due le braccia. Una signora continuava a chiamare, un ragazzetto le era
accanto e pareva spaurito.
- E' mia moglie
- balbettava
quello -
e lui, è mio figlio, deve essere mio figlio
Aveva tre
mesi quando l'ho lasciato.
Piangeva senza singhiozzi
e tendeva le braccia. Poi urlò:
- Sono io, Rita! Sono io!
Va tutto bene!
Chichibio strinse a pungo
le mani perché gli tremavano. Per lui non c'era nessuno, laggiù.
Ma non c'era nessuno nemmeno per gli altri, tranne per quell'uomo in lacrime.
Quella gente aspettava altri prigionieri, aveva sperato che arrivassero
con il Tamaroa. Ora sarebbe andata a casa per tornare all'annuncio di un
nuovo arrivo.
Il Tamaroa, finalmente, era
fermo. Una passerella fu calata. I Mille erano tornati silenziosi e con
la vecchia pazienza del prigioniero aspettavano, immobili. Fu allora che
udì un allegro fragore di trombe e sul molo spuntò una banda
militare. I suonatori erano infagottati in uniformi a metà grigioverdi
e a metà cachi. Un maresciallo li precedeva segnando il tempo con
il braccio. Si fermarono accanto alla passerella. Suonavano «jamme,
jamme, jamme jamme jà! Funiculì, funiculà
».
I Mille, attoniti, tacquero
per qualche istante mentre le note festose di quel relitto sfasciato di
banda militare sul porto disfatto, quella gioia badogliana che si spargeva
sui cacciatorpedinieri diruti, sulla barca questuante rovesciata, bersagliavano
loro e l'epopea che si portavano dentro. L'urlo esplose come un boato:
- Silenzio! Basta! Via!
Si sporgevano tutti dal parapetto
e tendevano i pugni. La banda emise ancora qualche nota, disordinatamente,
gli ottoni tacquero ad uno ad uno. Un bombardino, solo, fece ancora «po
po
» e si zittì. Nel breve silenzio che avvolse tutto e tutti,
si udì la voce di Rominasi, acutissima:
- Non è festa, maledetti!
Questo ritorno non è festa!
I suonatori se ne andarono
e le loro facce erano stupefatte, facce di ebeti impossibilitati a capire
quella stana gente dalla strana uniforme che continuava a tendere i pugni
con visi stravolti dall'ira.
Le sentinelle inglesi che
chiudevano l'accesso alla passerella si scostarono, i prigionieri cominciarono
a scendere, in fila indiana. Chichibio discese, a gran passi. Delle ragazze,
con cestini infiocchettati di tricolore, siglati con la croce rossa, offrivano
mele. Frediano, che precedeva Chichibio, sghignazzò:
- Finalmente la Croce Rossa!
Viva la Croce Rossa! -
Chichibio inciampò
nel mettere piede sul molo, vacillò e si fermò.
Vide un viso di ragazza, giovane
bello e dolente, la sua bocca rossa ben modellata che diceva:
- Perché avete gridato
contro la banda? Vi faceva festa
-
Chichibio la fissò
e quel bel viso smise di sorridere. Ora la mano di lei gli porgeva il cestino
con le mele. Chichibio afferrò una mela e la scaraventò in
mare. Urlò:
- Non capite?! Perché
non capite?! -
Qualcuno lo spinse alle spalle
e Chichibio seguì la fila.
Furono fatti salire su autocarri
in attesa sul molo. Sul piantale di quello sul quale salì Chichibio
c'era dello sterco. L'autocolonna si mosse, uscì dal porto. Sulla
via, gente si fermava a guardare, senza curiosità, quegli uomini
stranamente vestiti. Su tutti gli autocarri, i Ribelli si alzarono in piedi
sostenendosi alle fiancate e, per la ressa, uno con l'altro.
Chichibio guardava davanti
a sé, come tutti, del resto.
- Passa l'onore, partenopei!
esclamò Nardi e sorrise beffardamente.
Andarono per un pezzo così,
scesero davanti a una caserma. Una sentinella, di bassa statura, appoggiata
stancamente al Novantuno come ad un bastone, disse mentre Chichibio le
passava davanti:
- Attenzione ai bagagli. Accà
arrobano tutt'e cose. -
L'avvertimento fu ripetuto
da un sergente che poi li convogliò «al verbale d'interrogatorio
e alla discriminazione».
Seduti dietro molti tavoli
ingombri di carte, degli ufficiali in grigioverde facevano le domande e
scrivevano le risposte. Grado, cognome, nome, reparto, luogo di cattura,
luogo di prigionia. Infine:
- Com'è stato il trattamento
da parte degli inglesi?
- Pessimo rispose Chichibio.
- Come hai detto?!
- Ho detto pessimo sillabò
Chichibio.
- Hai collaborato con gli
alleati?
- No.
- No? Perché?
- Perché mi vergognavo.
- Scrivo così?
- Scrivete così. E
come, se no?
- L'uso del voi è abolito.
- Me ne sbatto.
Agli altri tavoli, i dialoghi
erano analoghi, le risposte secche, qualcuna furibonda. Chichibio firmò
il verbale. gli dettero ventimila lire. Se le rigirò fra le mani:
strane, le am-lire.
- Si presenterà al
suo distretto.
Se ne andò. Attese
nel piazzale della caserma finché non ritrovò Frediano, Rominasi,
Talli, Nardi, Fazi. Cercarono Mistretta, Camori, Pizzi e Perla ma non ne
videro traccia. Scorse Bastiani che se ne andava in fretta. Lo salutarono
a gesti, da lontano. Uscirono. Una torma di ragazzi li avvolse. Offrivano
pezze di stoffa. Un marmocchio di una decina d'anni aveva tra le mani un
grosso rotolo di banconote.
Nardi conosceva Napoli e li
guidò. Camminarono a lungo, entrarono in un locale, mangiarono qualcosa.
Decisero di andare a Roma. Nardi confabulò con il padrone del locale.
Non c'erano più treni sino a domattina. Arrivò una macchina.
Contrattarono. Si ficcarono nell'auto dopo aver legato con una corda le
loro sacche sul tetto. Partirono. A un certo punto, l'autista li avvertì:
- Facite attenzione. Guardate
dal lunotto. -
- Perché? -
- Qui tagliano le corde e
si fregano i bagagli. -
Ma non ci furono assalti.
Arrivarono a Roma a notte
inoltrata. Scesero dall'auto alla stazione Termini. Nardi, Rominasi, Talli
e Fazi avrebbero preso il treno. Si strinsero la mano. Si scambiarono indirizzi.
Poi, con un certo impeto e senza parlare, si abbracciarono.
- Teniamoci in contatto.
- Sì, teniamoci visti
disse Chichibio pensando a Maposi che aveva perduto nella confusione
della caserma.
Chichibio e Frediano presero
per via Nazionale, imboccarono il Traforo. All'altro imbocco, disteso per
terra, in mezzo alla via, dormiva un soldato americano, negro.
Su una porta di via del Tritone
c'era scritto «pensione». Entrarono, mostrarono il foglietto
che avevano ricevuto a Napoli.
- Non so se è valido
- disse il portiere.
- Certo che è valido
rispose Frediano. Ex prigionieri. Siamo ufficiali. Appena rientrati
dalla prigionia. Non cooperatori.
- Va bene, va bene, non collaborazionisti.
- Che cosa vuol dire?
- Che non avete collaborato
con i tedeschi.
- Non abbiamo cooperato con
gli inglesi. Va bene?
- Sì, sì, va
bene, come volete.
Ebbero la camera, si buttarono
sul letto e si addormentarono subito.
La mattina, uscirono prestissimo.
- Se trovo un treno disse
Frediano per la vigilia sono a Milano. -
- Per la vigilia?
- Ehi, pirla! Oggi è
il 23. Domani è la vigilia di Natale.
- Ah. Già. Anch'io,
forse, ce la faccio. Se stanno ancora là, se non hanno cambiato
paese. Ma non credo ci sia un treno. Forse una corriera.
- Va a Castro Pretorio. Da
lì, una volta, partivano le corriere. Ti ci accompagno io. Conosco
la strada. E la stazione Termini è a un passo. -
Se ne andarono verso Castro
Pretorio e Chichibio portava il vecchio pastrano sul braccio. Non faceva
freddo, la giornata era piena di sole. Qualche passante sbirciava perplesso
la loro divisa. Era strano camminare così, sul marciapiedi, fra
la gente, liberi, passare davanti a negozi, a bar, consapevoli di poter
andare dove volevano, programmare il domani a proprio capriccio. E sentirsi
allegri.
A poco a poco, però,
ammutolirono, s'incupirono. Passavano delle camionette piene di gente.
- Guarda. Al posto dei tram
ci sono quelle.
C'erano dei banchetti di venditori
di sigarette. Fra i pacchetti di sigarette estere, videro dei cartocci
con tabacco sfuso. Un uomo, davanti a loro, sollevava da terra, infilzandoli
con la punta di un bastone, dei mozziconi e li riponeva in una borsa che
portava a tracolla. Sulla gente, sui negozi, sul traffico, persino sulle
facciate delle case gravava una stanca atmosfera di disordine, sporcizia,
provvisorietà. Qua e là, manifesti e scritte sui muri urlavano
nere parole cubitali e rosse falci e martello. Loro tiravano di lungo,
senza leggere.
A Castro Pretorio cercarono,
chiesero. Finalmente, Chichibio trovò una corriera che passava per
il paese dove, per quanto ne sapeva, abitava la sorella. Partenza, seppero,
fra dieci minuti.
- Appena in tempo.
- Già.
Ma trascorse mezz'ora.
- Ora tu vai a Milano?
- A Milano. C'è il
mio fratellastro. Chissà se trovo subito un treno.
- Spero di sì.
- Dài, sali, o non
trovi posto. -
Si guardarono, si sorrisero.
Frediano brontolò:
- Si stava meglio al Venticinque.
-
- Io ci sto sempre, al Venticinque.
Frediano gli mise una mano
sulla spalla:
- Però, potevamo andare
in un casino
-
Chichibio sentì scavarglisi
nello stomaco un vuoto e un sapore amaro, di fiele, impastargli il palato
e, improvvisa, gli esplose un'atroce nostalgia di sua madre. Ma disse soltanto:
- Già.
Si abbracciarono, un abbraccio
lungo, quasi convulso.
- Il mio indirizzo di Milano
te l'ho dato. Mandami il tuo.
Chichibio salì sulla
corriera sgangherata, affollata, graveolente, tirandosi dietro pastrano
e sacca, trovò un posto in fondo, accanto al finestrino polveroso.
Il naso contro il vetro, guardava Frediano che lo guardava. La corriera
si mosse. Frediano agitò la destra, poi distese il braccio, salutandolo
a quel loro modo, con un gran sorriso strafottente. Poi scomparve. Chichibio
continuò a guardare fuori, ma quello che vedeva era come nebbia.
Si sorprese a pensare che non aveva mai sentito una tristezza simile. Mai.
***
Arrivò di sera nel
grosso paese e andò a bussare alla porta della caserma dei carabinieri.
Così, fu il cognato, Capitano, che gli dette il primo saluto di
casa. Poi la sorella, un abbraccio lungo e muto, che non finiva mai, sulla
porta dell'appartamento pieno dei vecchi mobili di casa, l'abbraccio del
padre, breve, schivo, quasi impacciato. Lo guardò curiosamente per
quegli inusitati abiti borghesi. Si chinò a baciare il figlio della
sorella, un ragazzino di tre anni e sfiorò la guancia dell'altra
figlia, ancora nella culla.
Nonostante i vecchi mobili
di casa, tra i quali era cresciuto, guardava tutto come un estraneo, dal
di fuori, spiccicando poche parole. E cercava colei che mancava. Precipitava
dentro l'enorme assenza che lo raggelava.
La cena, la prima cena vera,
seduto a un desco vero, con la tovaglia e il vasellame buoni che la sorella
aveva tirato fuori per fargli festa, i cibi del vecchio sapore caro. Mangiò
pochissimo e parlò ancora meno, fissando la porta della camera da
pranzo, davanti a lui, lasciata aperta e sulla quale la mamma non appariva.
Un letto vero, poi, nel quale
si rigirò tutta la notte, dormendo ad intervalli.
Poi, i racconti. tutti raccontavano
le loro pene mentre, come in sogno, trascorrevano la vigilia e il giorno
di Natale e venivano gli amici del cognato che avevano anche loro tanto
da raccontare.
Chihibio ascoltava. Immaginava
le vite di quella gente che si erano dipanate in una normalità non
spezzata dagli avvenimenti enormi. Nascite, morti, matrimoni, affari. Lui
no, niente. Ascoltava e quasi non parlava dopo che, rispondendo alle domande
che, finalmente, si erano ricordati di porgli, aveva visto i loro occhi
smarriti e vuoti di qualsiasi comprensione. Non capivano. Forse nessuno
avrebbe mai capito, per tutta la vita. Possibile che nemmeno suo padre
capisse, se continuava a raccontare la sua prigionia terribile? Anche la
morte della mamma pareva un irrilevante episodio.
La mattina di Santo Stefano,
mentre Chichibio stava col naso contro i vetri della finestra sentendosi
solo come mai si era sentito, il padre gli parlò con aria molto
solenne. Gli disse che si era fidanzato con una vecchia amica di famiglia
perché non poteva certo vivere così solo, non gli sembrava?
Ma aveva voluto attendere il suo ritorno prima di sposarsi.
Chichibio lo guardò
e poi cominciò a ridere.
- Non capisco. Che cos'hai
da ridere?
Chichibio cercò di
tornare serio ma non ci riusciva. Rideva senza potersi frenare. Smise di
colpo. Chiese:
- Come mi posso vestire? Non
posso continuare ad andare in giro così.
- Ma certo! esclamò
il padre, tutto premuroso. C'è là nell'armadio il tuo vestito
alla zuava. E' ancora in buono stato.
Era un vestito che aveva portato
all'età di quindici anni, per poco tempo perché non gli piaceva.
Disse, a bassa voce:
- Sì, certo quello.
Mi ricordo. Mettilo tu, no? Farai un figurone. Mettilo tu. Ma perdio, babbo,
ti rendi conto? No, non ti rendi conto. E chi si rende conto?
Tre giorni dopo, lui e suo
padre urlarono, uno contro l'altro, con in mezzo la badogliata regia. La
sorella accorse, lo circondò con le braccia e Chichibio si mise
a piangere perché nell'abito della sorella gli parve di sentire
l'odore buono delle vesti della madre. Il suono del pianto era come l'ululato
notturno di un cane.
***
Faceva la spola fra il paese
e quello dove aveva sede il distretto, per ottenere quella parte dello
stipendio ch'era stata accantonata. Le scale del distretto erano piene
di soldati in attesa dei loro quattro soldi. La terza volta, urlò
come un forsennato contro gli scritturali, pretese ed ottenne di vedere
il colonnello comandante e sul malcapitato rovesciò tutta l'ira
accumulata dall'8 settembre in poi. Ottenne quello che voleva.
Scrisse a Frediano e questi
gli propose di andare da lui, a Milano, dove c'era qualche prospettiva
di lavoro. Verrò, rispose, appena sistemate le mie faccende.
***
La faccenda era una soltanto.
- Com'è morta la mamma?
chiese alla sorella.
- Te l'ho scritto.
- Non ho mai ricevuto niente.
- Ma te l'ho detto, appena
tornato.
- Non l'hai detto bene. I
particolari. E' morta di cancro, hai detto. Che cancro? -
- Carcinoma. Al fegato. All'ospedale.
Il 15 dicembre 1944. -
- Al fegato. Naturale con
quello che ha passato. All'ospedale ci sono le suore con la cuffia ad ali
inamidate?
- Sì, lo sai.
- E il letto, com'era il letto?
- Come sarebbe, com'era?
- Di ferro, bianco, nero,
smaltato, come?
- Ma, sai, i letti d'ospedale.
Bianchi. Di ferro smaltato.
- Con la coperta bianca, di
piquet, vero?
- Come lo sai?
- L'ho sognata. L'estate del
'42. L'ho sognata. Le suore, il letto, la coperta. E il Duce prigioniero.
E il Golgota. E lei che moriva. Ma lei era anche l'Italia. -
La sorella aveva gli occhi
lucidi anche se era chiaro che non capiva bene. Disse:
- Ha fatto testamento. Gli
l'ha fatto fare lo zio Enrico. Ha lasciato quei due poderi e la casa ai
nostri figli, nati e nascituri.
- Nati e nascituri? disse
Chichibio e si mise a ridere. Lesse il testamento, formale, certo non di
pugno della madre. Solo l'ultima frase, certamente, era sua , quella con
la quale chiedeva perdono se aveva fatto qualcosa di male.
Chichibio aveva voglia di
urlare, come al Distretto. Invece, mormorò:
- Anche questo le hanno fatto
dire. Perdono? Lei? E di che cosa? Io, invece, a lei. Quante volte le ho
risposto male
E quando voleva uscire con me e io, invece, non le davo
mai questa soddisfazione? Perdono, lei! Dobbiamo chiederle perdono tutti,
il babbo, io e quel porco di Badoglio. E' morta sola per colpa di quel
porco, il marito in Germania e io nel Campo Venticinque.-
- Io c'ero sussurrò
la sorella.
- Si capisce. Tu sì.
Tu non hai colpe. Non ne hai mai avute.
- A me e a te ha lasciato
i suoi risparmi e gli ori. Cinquantamila lire. -
- Erano un piccolo patrimonio,
cinquantamila lire. Ti ricordi come metteva da parte gli affitti dei poderi?
Per i figli, diceva. Adesso, venticinquemila lire a testa
-
- Sono niente. -
Si divisero il denaro. Si
divisero gli orecchini, i braccialetti, gli anelli. Chichibio lasciò
alla sorella riluttante i pezzi migliori.
- Tu sei donna. Io, che me
ne faccio, io?
Accarezzava quei monili modesti
e rivedeva in ciascuno la bellezza della madre, un po' severa, quasi statuaria
se non fosse stato per gli occhi neri, vellutati e, quando rideva rovesciando
la testa e mostrando la gola bianca e lunga, pieni di pagliuzze dorate.
- Devo andare al camposanto,
al nostro paese.
- C'è una corriera
fino a Roma. Poi, lì, si deve prendere un'altra. Ma io non posso
accompagnarti, per i bambini. Come si fa?
- Solo, voglio andarci solo.
Dov'è sepolta?
- Non so dirti bene. E' verso
il fondo, a destra, dove ci sono i loculi. In un loculo provvisorio. C'è
il nome, ma non inciso. Ora il babbo farà la traslazione nella tomba
definitiva. Ti può accompagnare lui.
- Vada dalla sua fidanzata,
lui. -
***
Partì una sera con
l'ultima corriera. Arrivò prestissimo al paese appollaiato su un
cocuzzolo, e piovigginava. Lo attraversò e gli parve che non fosse
cambiato nulla. La guerra non vi aveva lasciato tracce. Poca gente passava
a quell'ora. In una donna e, poco dopo, in un uomo riconobbe ragazzi con
i quali aveva giocato quando anche lui era un ragazzo, ma tirò via
affondando il viso nel bavero dell'impermeabile del cognato, prestagli
dalla sorella così come l'abito che indossava, troppo largo. Aveva
timore che lo riconoscessero. Che cosa mai avrebbero potuto dirsi ormai,
dopo tante vite? lui aveva vissuto la vita dell'adolescenza e della prima
giovinezza, la vita della guerra, la vita del branco prigioniero, la vita
della Repubblica Fascista dell'Himalaya; e adesso quest'altra vita, quella
del ritorno miserabile. Loro, forse, ne avevano vissute di meno, quella
dell'anteguerra, quella della guerra e quella che stavano vivendo adesso.
Più probabile, anzi, che le loro vite fossero state due o addirittura
una sola, la fusione, cioè, senza scosse, del prima e del dopo.
Non avrebbero saputo che cosa dirsi. Inutile, dunque, parlarsi. Meglio
tirar via, morti ormai gli uni per gli altri, anzi mai esistiti.
Soltanto le case grigie del
paese, immutate, esistevano. Lo guardavano dalle vecchie persiane scolorite
protette dalle sopracciglia delle grondaie, e dalle porte, come sempre
semiaperte, gli parlavano. Con loro intrecciava un dialogo muto e senza
senso, mentre camminava fra loro. Tutto il paese, improvvisamente, lo chiamò
col suono indimenticato della campana che annunciava la prima Messa.
I rintocchi cercavano, entrandogli
nel cervello, il ragazzo che era stato e che - credeva Chichibio non
esisteva più. Allungò il passo, per sfuggirli, finché
cessarono, svanendo in un paio di rintocchi anomali, fiochi.
Allungò ancora il passo,
quasi correndo per la strada in forte discesa che conduceva al camposanto.
Non lo aveva mai chiamato
cimitero. A casa e in tutto il paese di diceva «il camposanto»
e lui, pensandoci, lo chiamava ancora così. Cimitero era macabro,
camposanto era dolce e lasciava una speranza.
Il cancello era aperto. Entrò
e camminò fra i cipressi alti e immobili, madidi di pioggia, i cipressi
di sempre. Da ragazzo, aveva scorrazzato fra quei cipressi, giocando, restio
ai richiami della mamma che acconciava fiori sulle tombe dei parenti. "Porta
rispetto", gli diceva la sua voce severa ma, lui sapeva, molto tenera
e paziente.
- Sì, certo, porto
rispetto, mamma. Ci sei tu, qui.
Pronunciò le parole
che nessuno poteva udire. Il piccolo camposanto era deserto.
Si diresse verso il luogo
indicatogli vagamente dalla sorella, trovò l'insieme di loculi bianchi,
allineati e sovrapposti su quattro file.
Leggeva i nomi, ad uno ad
uno. Poi lì, nella seconda fila, su un loculo senza iscrizione,
scritto in diagonale a matita copiativa sull'angolo in alto a sinistra,
lesse il suo nome.
Sentì il solito tonfo
sulla nuca. S'irrigidì. Cominciò a parlare a mezza voce:
- Non potevano metterti subito
in un posto tutto per te, con il nome inciso, chiaro, e le date? Potevano.
Dici che hanno voluto aspettare me? Bella roba, quel nome a matita copiativa
messo di sghimbescio. Ma loro lo sanno che cosa mi fa, questo? E che gli
frega? Picchia e dài e mena sul povero fesso di guerra! Scusa, ma',
scusa. Non si dice così. Si dice «che cosa gliene importa»
ma non lo penso. Mi faccio sereno, come vuoi tu. Paziente e sereno. Però,
Dio poteva pure
! No, scusa, ma', non piangere. Non piangevi mica quella
mattina, anzi no, piangevi con una lacrima sola e sorridevi, anche. Chissà
quanto hai pianto dopo, quando io non potevo vederti più
quando
eri sola, col babbo in Germania
Lo so che non dovevo gridare contro il
babbo, gli devo rispetto, lo so, ma quella fidanzata, sì, tu capisci,
hai ragione, hai sempre capito tutti, tu... lui in Germania e io nel Campo
Venticinque. Ma io non potevo stare altrove, tu lo sai. Devo pregare il
Signore, certo. Si dice «requiem aeternam dona ea, Domine, requiescat
in pace, amen». Il segno della Croce, sì, fatto bene, senza
rispetto umano che è solo vigliaccheria. Ecco. Va bene? Non parli?
perché il Signore non fa il miracolo, perché qui, dove nessuno
vede e nessuno sente se non noi due, non ti fa parlare a me? Vorrei sapere.
Perché il cancro? perché il carcinoma al fegato? tutto lo
strazio ti ha roso il fegato? che cosa hai pensato quando hai saputo di
morire senza di me? E parla, ma', parla, una parola sola, ma'
-
La voce di Chichibio pareva
il lieve murmure che un vento leggero e freddo, un refolo appena, traeva
dai cipressi ma era, invece, una voce umana che risuonava nel silenzio
attonito del Camposanto.
La vide. Lì. Nell'ombra
cupa fra il tronco e le prime fronde di un cipresso. Sorrideva e piangeva
come quella mattina, alta, solenne, vestita di nero e tutta luce negli
occhi, nella lacrima, nel sorriso delle labbra.
Un attimo dopo e per tutta
la vita, poi, non seppe mai se l'avesse veramente veduta o se la visione
fosse stata un'allucinazione del suo povero cervello stremato.
Si sentì, però,
subito dopo, pieno di forza, di serenità, quasi di letizia. Carezzò
quella pietra, due, tre, cinque volte. Ci batté sopra un colpettino
leggero, sorridendo:
- Ciao, ma'. Tanto, staremo
sempre insieme. Con te e con Rino. Lo conosci, no? il mio amico che non
hai mai veduto, lo conosci.
Si allontanò a passo
svelto, uscì dal cancello. Andava a passo ben ritmato, battendo
forte i talloni sul selciato, sentendo davanti, a fianco e dietro di sé
il passo cadenzato dei criminali fascisti della Repubblica dell'Himalaya.
Aveva voglia di cantare.
LA REPUBBLICA FASCISTA DELL'HYMALAIA Leonoda
Fazi. Edizioni Piazza Navona. Roma 1992 (Indirizzo e telefono: vedi
EDITORI)